dimanche 10 mars 2019

Bienheureux GIOVANNI DELLE CELLE, abbé




Beato Giovanni Delle Celle Abate


Firenze, ca. 1310 - Vallombrosa, Firenze, ca. 1394-96

Giovanni da Catignano (1310­ ca 1394), abate del monastero vallombrosiano di Santa Trinità, a Firenze. Era un uomo geniale, buon letterato e ottimo conoscitore di Dante e Petrarca, ma turbolento e sanguigno. S’era lasciato invischiare in un rapporto sbagliato con una nobildonna. Deposto dall’ufficio, era stato condannato a un anno di prigionia nella torre del monastero. Compiuta la penitenza, i monaci avrebbero voluto reintegrarlo nell’ufficio, ma fu lui stesso a esigere di restare per tutta la vita nelle 'Celle', un romitorio vicino al monastero, ma completamente isolato. E 'Giovanni delle Celle' divenne il suo nome.Vi restò per 40 anni, senza mai uscirne, dedito alla preghiera, allo studio e alla penitenza, ma pienamente partecipe della vita del suo tempo, per mezzo di una ricca corrispondenza con le più autorevoli personalità. Di particolare importanza fu il suo rapporto epistolare con santa Caterina da Siena, che gli chiese aiuto per convincere il Papa ad abbandonare Avignone e tornare a Roma. A un frate che la criticava, Giovanni delle Celle scrisse: «Caterina si rallegra della tua villania, per amore di Gesù che per lei ha sopportato tante ingiurie, ma piange per la tua cecità e la tua cattiveria e prega Dio che ti illumini e ti perdoni». Dicono i critici che il suo stile epistolare è notevole «per il vigore della lingua, la limpidità del giudizio e la forte religiosità». Alla sua morte, i monaci del monastero lo venerarono subito come un santo.

Ecco un abate degradato, nel monastero fiorentino di Santa Trinità. Non si conosce bene la sua colpa: pare che ci sia di mezzo una donna, e comunque la cosa è molto grave, perché dopo la degradazione l’ex abate viene chiuso dentro una torre, per un anno intero. Nome di famiglia: Giovanni da Catignano. È entrato giovane tra i monaci detti di Vallombrosa, dal nome del luogo presso Firenze, dove nel 1051 san Giovanni Gualberto ha fondato l’Ordine. 

E si è fatto presto notare per l’ingegno, l’amore per lo studio e il carattere turbolento. Virtù e difetti che lo hanno portato dapprima alla guida del monastero e poi alla reclusione nella torre. Trascorso l’anno di prigionia, i suoi monaci lo rivorrebbero abate. Lui invece si ritira in solitudine a Vallombrosa, ma non dentro lo storico monastero: la cella di un vicino romitorio sarà la sua casa per sempre, perché ha deciso di punirsi ancora per conto suo, facendosi segregato a vita. E così, per tutti, cambia pure nome. Ora lo chiamano Giovanni delle Celle. Vive lontano da tutto, ma è in contatto per lettera con la vita politica e religiosa del suo tempo, soprattutto di Firenze. Ammiratore e amico di Caterina da Siena, la difende energicamente contro un certo frate Ruffino che l’ha accusata di eresia, e gli scrive: "Caterina gode della tua villania, per amore di colui che tante ne sostenne per lei, e piange della tua cecità e malizia, e prega Dio che ti illumini e ti perdoni". Anche Caterina scrive a lui, e in una lettera gli chiede calorosamente di intervenire a sostegno di papa Urbano VI (Bartolomeo Prignano) al quale nel 1378 alcuni cardinali hanno contrapposto l’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra). Ecco le sue parole: "Vi prego [...] che voi andiate a Firenze a dire a quelli che sono vostri amici, e che’l possono fare, che lor piaccia di sovvenire al Padre loro e d’attenergli quanto gli hanno promesso". 

Giovanni ha sostenuto vigorosamente Caterina quando lottava per far cessare la residenza dei papi in Avignone. E anche ora le dà ascolto, battendosi con gli scritti in favore di papa Urbano, soprattutto con i governanti fiorentini. Ma rimane nella sua cella: per nessun motivo verrà mai meno alla segregazione perpetua che ha voluto infliggersi. Prega, studia e scrive, sempre lì per un quarantennio, guadagnandosi pure fama letteraria di "prosatore vivo e forte" (don Giuseppe De Luca). Conosce a fondo i grandi scrittori della classicità latina, e gli sono familiari anche gli italiani del suo secolo, Dante e Petrarca. 

Ma soprattutto da quella solitudine Giovanni diventa guida spirituale per uomini e donne, sempre scrivendo: ai reggitori di Firenze, a laici e a chierici, a uomini e a donne, a chi ha perduto un figlio, e pure all’abate di Santa Trinità (che ha preso il suo posto quando l’hanno degradato). Nella sua cella riceve la notizia della morte di Caterina nel1380, e lì si spegne in un anno imprecisato, 1394 o 1396. Poco dopo la sua morte, l’Ordine Vallombrosano già lo venera come beato.

Autore: Domenico Agasso

Beato Giovanni delle Celle dell’Ordine Vallombrosano

10 Marzo 2017 di Ilaria Crocioni Pubblicato in NewsRicorrenze Religiose

Giovanni da Catignano nacque intorno al 1310 e entrò presto in monastero.

Giovane dalle spiccate doti intellettuali e con un alta formazione culturale e letteraria, conosceva gli autori classici latini e gli scritti di Dante e Petrarca, fu scelto come abate del monastero Santa Trinità di Vallombrosa presso Firenze.

Sembra che fu coinvolto in una relazione con una nobildonna e, a causa di ciò, in seguito deposto dall’ufficio di abate del monastero e condannato a scontare in penitenza un anno di prigionia nella torre del monastero.

Trascorso l’anno di prigione la sua comunità di monaci lo volle reintegrare ma lui stesso decise di ritirarsi per tutta la vita in una cella del romitorio vicino al monastero. Cosi diventò per tutti Giovanni delle Celle. Egli si ritirò dalla vita del mondo ma mantenne i contatti per lettera con la vita politica e religiosa del suo tempo e della città di Firenze.

La sua scelta ascetica non gli impedì infatti di continuare a comunicare attraverso scambi epistolari con personaggi illustri e non del suo tempo tra cui Caterina da Siena. La santa gli scrisse per chiedere aiuto e convincere il papa ad abbandonare la sede papale di Avignone e tornare a Roma.

Ad un frate che accusa la giovane Caterina di eresia lui rispose:

“Caterina gode della tua villania, per amore di colui che tante ne sostenne per lei, e piange della tua cecità e malizia, e prega Dio che ti illumini e ti perdoni”.

 Giovanni pregava, studiava e scriveva nella sua cella e da quel silenzio fertile diventò una guida spirituale per uomini e donne, laici, preti e politici.

 Tra le numerose lettere che scrisse quella indirizzata all’amico Guido sulla gioia di donare narra cosi:

“Dio a voi dia tanta benedizione, che voi godiate più di quello che date che di quello che vi rimane. E davvero, chi avesse alluminato l’anima, cosi sarebbe; perocché quello che date, vi dee fare le spese in eterno; e quello che ritenete, poco tempo: quello c’hai dato, t’ha spenti i peccati; quello che t’è rimasto, tutto dì te ne fa commettere: quello che hai dato è in sicuro luogo e mai perdere non si può; quello che ritieni, sempre sta a rischio di perdersi. … Quello che dai pasce i poveri di Cristo; ma quello che tieni, pasce la carne, e il peccato. … Ma questa grazia ti conviene chiedere a Cristo, ed alla Vergine Maria. …Iddio te ne dia grazia”.

Giovanni delle Celle morì tra il 1394 e il 1396 circa e, poco dopo, l’Ordine Vallombrosano lo venerava già come beato.

La sua memoria liturgica ricorre il 10  marzo.

SOURCE : https://www.vaticano.com/beato-giovanni-delle-celle-dellordine-vallombrosano/

GIOVANNI dalle Celle

di Maurizio Moschella - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI dalle Celle. - Nacque nel 1310 da Gano, della famiglia dei Catignano, probabilmente a Firenze, dove il padre fu personaggio autorevole, visto che è menzionato in un documento del 1317 tra i capi delle famiglie locali invitati a far pace da Guido dei conti Guidi di Battifolle. È opinione di alcuni studiosi, tuttavia, che Catignano, un piccolo borgo nei pressi di Firenze, fosse il luogo di nascita di G., e non il suo cognome.

Entrato nell'Ordine dei benedettini vallombrosani in giovane età, nel 1346 G. fu nominato abate del convento di S. Trinita a Firenze. Nel 1347 venne condannato a un anno di carcere per aver intrattenuto una relazione amorosa con una giovane donna, colpa che G. confessò all'agostiniano Simone Fidati (Simone da Cascia) in una lettera databile al maggio-giugno di quello stesso anno. Dopo aver scontato la pena nella torre Pitiana del convento di Vallombrosa, G. fu liberato e reintegrato nella carica di abate grazie anche all'intercessione dei suoi confratelli e di molti cittadini fiorentini. Nel 1350 fu a Roma in occasione del giubileo indetto da papa Clemente VI; nel 1351, a compimento di una profonda crisi che ebbe origine probabilmente al tempo della sua "colpa", decise di ritirarsi nell'eremo delle Celle di Vallombrosa, da cui prese il nome e dove trascorse il resto della vita, fatta eccezione per alcuni brevi soggiorni a Firenze e Siena.

La scelta ascetica non impedì a G. di mantenere contatti con il mondo, che furono esercitati attraverso un fitto scambio epistolare con diversi personaggi più o meno illustri del suo tempo, molti dei quali si affidavano alla sua direzione spirituale; a essi G. esponeva riflessioni in ambito teologico e dava consigli di natura morale.

G. seguì anche con interesse vivissimo l'attività di Caterina da Siena della quale difese, da sincero ammiratore, le virtù morali in un'appassionata polemica documentata da numerose lettere, ma rimase sempre estraneo alla componente mistica presente nell'esperienza cateriniana.

Dall'eremo di Vallombrosa G. si teneva inoltre aggiornato sull'organizzazione della crociata alla quale Caterina stava dedicando le sue energie. La crociata fu finalmente bandita nel 1373 da Gregorio XI, ma nessuno dei principi cristiani a cui Caterina si era rivolta sembrava realmente disposto, al di là degli impegni formali assunti, a gettarsi nell'impresa. Fu in quell'occasione che nacque un malinteso tra G. e alcuni esponenti del circolo cateriniano: alcune giovani donne fiorentine, trascinate dall'entusiasmo della Benincasa, avevano manifestato l'intenzione di partire per la Terrasanta per unirsi ai crociati; G. scrisse allora una lettera a una di esse, suor Domitilla, della quale era confidente spirituale, affermando che, per lo meno in questo proposito, non era in sintonia con la posizione di Caterina, ribadendo l'inutilità e i pericoli dell'impresa. Tali considerazioni, rese pubbliche da un discepolo di Caterina, l'agostiniano inglese William Flete, fecero pensare a un dissenso sostanziale di G. dall'operato della Benincasa: dissenso che G. si affrettò a negare in una lettera inviata allo stesso Flete nel 1376, nella quale egli confermava la sua più completa devozione per Caterina e chiedeva di essere ammesso tra i suoi discepoli, pur senza averla mai incontrata fino a quel momento; la sua richiesta fu rapidamente accolta, come testimonia lo stesso G. in una lettera del 10 ottobre di quello stesso anno. Caterina ricambiò immediatamente la stima e l'affetto dimostrati da G. e lo esortò a entrare nella Compagnia della Madonna sotto le volte dello spedale di S. Maria della Scala, alla quale appartennero personaggi illustri come Iacopone da Todi, Giovanni Colombini, s. Bernardino da Siena e la stessa s. Caterina. Il biografo della santa, Stefano Maconi, inoltre, racconta di un miracolo che ella avrebbe operato proprio a favore di G. che, agonizzante nella badia di Passignano, nei pressi di Firenze, fu guarito dalle sue preghiere: di questo episodio G. diede un dettagliato resoconto in una lettera che però non ci è pervenuta. Della corrispondenza che ci fu tra G. e Caterina al momento sono note solo le lettere indirizzate dalla santa al Cellense nel 1376 e nel 1378 (nn. 296 e 322 dell'ed. Meattini).

Nel gennaio del 1379, su indicazione di Caterina, G. fu invitato a Roma insieme con altri celebri teologi e uomini di Chiesa da papa Urbano VI, che voleva chiedere consigli sulla condotta da adottare in merito all'elezione dell'antipapa Clemente VII e pianificare un progetto di riforma in risposta alla grave crisi della Chiesa provocata dal grande scisma d'Occidente (1378). Le cronache dell'epoca narrano che l'iniziativa di Urbano VI ebbe scarso successo, tanto che solo pochissimi religiosi si presentarono all'incontro con il papa previsto per la domenica successiva all'Epifania del 1379 (9 gennaio); G. non era tra questi. Non è possibile ipotizzare, come fa P. Cividali, che G. abbia risposto all'appello solamente in considerazione dell'amicizia che lo legava al papa.

G. morì a Vallombrosa tra il 1394 e il 1400. Il terminus post quem è il maggio-giugno del 1394, data in cui fu eletto per la prima volta gonfaloniere di Firenze Guido del Palagio: G. accenna esplicitamente a questa elezione in una lettera indirizzata allo stesso Guido (n. 11 dell'ed. Giambonini); il terminus ante quem è il 1400: Lapo Mazzei, riferendosi a G. in una sua lettera a Francesco Datini, lo chiama "santo" e ne parla come persona morta. T. Sala, con una precisione a dire il vero non documentata, ritiene che G. sia morto il 10 marzo del 1396.

Il titolo di beato attribuito a G. è frutto probabilmente di una tradizione orale consolidatasi già nelle più antiche biografie, perché manca qualsiasi documentazione di processi ufficiali portati a termine dall'autorità ecclesiastica; la tradizione orale, del resto, è condizione sufficiente per la beatificazione secondo le "Costituzioni" di Urbano VIII del 1625 e del 1634, che concedevano il titolo di santo o di beato a chi fosse stato oggetto di un culto anteriore ai cento anni dalla promulgazione dei decreti.

Le 34 lettere di G. che ci sono giunte, scritte in latino e in volgare, sono datate tra il 1347 e il 1394 e, tranne quella indirizzata a Simone da Cascia, furono tutte redatte nel romitorio di Vallombrosa. Nell'edizione critica curata da F. Giambonini (1991) esse risultano così suddivise: nn. 1-13 a Guido del Palagio, uomo politico di primo piano nella Firenze del secondo Trecento e figlio spirituale del Cellense; nn. 14-18 a conoscenti o amici di Guido (Donato Ottaviani correggiaio, Lapo Mazzei, Guccio Gucci, Francesco Datini); nn. 19-22 a vari religiosi (una non meglio identificata suor Domitilla, Simone da Cascia, Simone Bencini); n. 23 ai gesuati; nn. 24-30 a vari destinatari, intorno a Caterina da Siena (sei in difesa e una in morte); nn. 31-34 ai fraticelli, relative a questioni di ortodossia; nell'Appendice, inoltre, compaiono tre lettere di dubbia attribuzione e alcune risposte dei corrispondenti di Giovanni dalle Celle.

Mentre le lettere in latino (la minoranza) non presentano spunti di originalità formale e G. rimane sostanzialmente legato alla tradizione della scolastica, nei testi in volgare egli si esprime con una lingua sorvegliata, aliena da marcati municipalismi e caratterizzata, sul piano stilistico, dalla raffinatezza degli espedienti retorici, e in particolare dalla potenza icastica delle efficaci comparationes con cui accompagna i suoi ammaestramenti morali. Il riconoscimento dell'alto livello di letterarietà che ben presto fu attribuito al suo volgare è testimoniato, oltre che dal gran numero di manoscritti del XIV e del XV secolo contenenti le sue lettere, dalle numerose citazioni che gli accademici della Crusca gli riservarono nella II e nella III edizione del Vocabolario. Lo stile è sostenuto da una formazione culturale e religiosa solida e approfondita, che spazia dalla patristica occidentale e orientale fino ai mistici e ai canonisti, e notevole appare l'influsso di s. Bernardo, del quale G. assimila soprattutto la tendenza a fondere, "nel clima mistico, elementi ragionativi, pratici, culturali" (G. Petrocchi, 1957, p. 215); più sporadiche invece risultano le presenze degli autori classici (Seneca e Boezio, soprattutto) e moderni (tra di essi, Petrarca, Jacopone da Todi, Angela da Foligno). Non si rilevano, nonostante quanto affermato da qualche studioso (Joergensen, Sapegno, Tartaro), tracce significative della nascente cultura umanistica nella visione del mondo di G., che rimane improntata a un rigoroso ascetismo di marca medioevale, poco incline a lasciare spazio a conflitti interiori (significativa, a questo proposito, è l'assenza di riferimenti alle Confessiones di s. Agostino) e non disposto a rischiare pericolose contaminazioni con la cultura pagana. G. si interessa dei problemi del suo tempo, conosce e interpreta le profezie gioachimite e pseudogioachimite, critica severamente le posizioni eterodosse dei fraticelli e il loro progetto di povertà estrema, esorta Guido del Palagio a difendere strenuamente la libertà di Firenze nella guerra degli Otto santi contro il papa (mostrando una autonomia di giudizio per certi versi sorprendente in una questione così delicata), ma poi rifiuta ogni tipo di impegno diretto nella Chiesa e nel mondo: a Guido raccomanda: "usa questo mondo come se tu non lo usassi" (lettera n. 4 dell'ed. Giambonini) e ai gesuati consiglia "fuga del signoreggiare e dello onore del chericato […] amore di servire […] dilungamento da ogni lite […] riverenza e onore de' compagni e di tutti gli uomini, e spezialmente de' preti e de' prelati, e di tutti i sacramenti della Chiesa e delle cose sagrate, che sono diputate al servigio di Dio; fuga dalla dimestichezza delli eretici e de' libri de' pagani" (lettera n. 23 dell'ed. Giambonini).

L'attività letteraria di G. non dovette limitarsi al genere epistolare, considerato il numero delle opere, in latino e in volgare, che gli antichi biografi gli hanno attribuito: tra queste, una Leggenda de' viaggi di s. Caterina (perduta), un Liber de moribus beatissimae Virginis, un Tractatus de poenitentia, una Vita di s. Domitilla (della quale G. fu devoto) e diversi volgarizzamenti. La recensio dei manoscritti consente, a oggi, di considerare di G. con un buon margine di sicurezza solamente il volgarizzamento della Summa casuum conscientiae del domenicano Bartolomeo da San Concordio (cfr. Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis praedicatorum Medii Aevi, I, Roma 1970, p. 165; IV, Roma 1993, p. 44), un diffusissimo manuale per i confessori. La traduzione in volgare nota con i titoli di Pisanella, Bartolina o Maestruzza, divisa in 5 libri (nei quali la materia non rispetta l'ordine alfabetico dell'originale), fu preparata espressamente per i numerosi chierici che non conoscevano il latino, come afferma lo stesso autore nel prologo. Non è sicuramente di G. (o di chiunque sia l'autore della Pisanella) il grossolano riassunto dell'opera che circolò in numerose copie alla fine del XIV secolo, noto con il titolo Fiori della Somma del Maestruzzo, ed è senz'altro un arbitrio del curatore l'attribuzione a G. di alcuni volgarizzamenti di autori classici (il Sogno di Scipione e i Paradossi di Cicerone, il Trattato delle quattro virtù morali e il Libro dei costumi attribuiti a Seneca, ma in realtà di Martino di Braga, autore del VI sec.) apparsi a stampa nel 1825 (Volgarizzamento inedito di alcuni scritti di Cicerone e di Seneca fatto per don G. dalle C. ed alcune lettere dello stesso, a cura di G. Olivieri, Milano 1825). È probabile che G. abbia allestito alcune traduzioni di Boezio per Guido del Palagio (cfr. lettere 1, 2, 16 dell'ed. Giambonini, nelle quali è lo stesso G. a darne notizia), ma finora non sono state identificate

L'edizione critica delle lettere si trova in Giovanni dalle Celle - L. Marsili, Lettere, a cura di F. Giambonini, I-II, Firenze 1991; edizioni parziali in Lettere del beato G. dalle C., a cura di B. Sorio, Roma 1845; P. Cividali, Il beato G. dalle C., in Memorie della R. Accademia dei Lincei, s. 5, XII (1907), pp. 426-477; Mistici del Duecento e del Trecento (Rizzoli), a cura di A. Levasti, Milano 1935, pp. 783-816; Prosatori minori del Trecento, a cura di G. De Luca, Milano-Napoli 1954, pp. 199-210; Scrittori religiosi del Trecento, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1974, pp. 95-102.

Fonti e Bibl.: B. Del Sera, Compendio degli abati generali di Vallombrosa e di alcuni monaci conversi dello stesso Ordine, Venezia 1510, p. 16; E. Locatelli, Vita del glorioso padre s. Giovangualberto fondatore dell'Ordine di Vallombrosa, insieme con le vite di tutti i generali, beati e beate che ha di tempo in tempo havuto la sua religione, Firenze 1583, pp. 264-267; A. Wion, Lignum vitae, II, Venetiis 1595, p. 71; D. Franchi, Istoria di s. Giovangualberto, Firenze 1640, p. 80; G. Bucelin, Menologium benedectinum sanctorum, beatorum atque illustrium eiusdem Ordinis virorum, Weldkirchii 1655, p. 187; Girolamo da Raggiolo, De beato Ioanne eremita Cellarum, in Acta sanctorum Martii, II, Antverpiae 1668, pp. 50 s.; G. Mannucci, Le glorie del Clusentino, I, Firenze 1674, pp. 15 s.; II, ibid. 1687, pp. 28, 86 s.; V. Simi, Catalogus sanctorum et plurium virorum illustrium qui… effloruerunt in Valle Umbrosa, Romae 1693, pp. 168-171; G.A. Casari, Celebriores Vallumbrosanae Congregationis sancti, beati ac venerabiles…, Romae 1695, ritratto n. 44; Caterina da Siena, Opere, a cura di G. Gigli, I, Siena 1707, pp. 469 s.; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 200; C. Carnesecchi, Vita monastica del Trecento, in Rassegna nazionale, 1° sett. 1895, pp. 31, 54 s.; Fontes vitae s. Catharinae Senensis historici. Documenti, I, a cura di M.-H. Laurent, Siena 1936, pp. 53-55; Thomas Antonii de Senis "Caffarini", Libellus de supplemento legende prolixe Virginis beate Catherine de Senis, a cura di G. Cavallini - I. Foralosso, Roma 1974, pp. 335 s., 367, 387-389; S. Caterina da Siena, Lettere, a cura di U. Meattini, Milano 1987, pp. 1448-1455; A. Marenduzzo, Le lettere di don G. dalle C. monaco di Vallombrosa, in Rassegna pugliese, XXII (1905), pp. 82-89; P. Cividali, Il beato G. dalle C., in Memorie della R. Accademia dei Lincei, s. 5, XII (1907), pp. 354-457 (si vedano anche, a parziale correzione e integrazione dello studio della Cividali, le recensioni di C. Di Pierro in Giorn. stor. della letteratura italiana, LI [1908], pp. 358-360, di G. Volpi in Rass. bibliografica della letteratura italiana, XVI [1908], pp. 79 s., e di C. Frati in La Bibliofilia, XV [1913-14], p. 97); D.F. Tarani, L'Ordine vallombrosano. Note storico-cronologiche, Firenze 1920, p. 113; G. Joergensen, S. Caterina da Siena, Torino s.d. [nulla osta 1921], pp. 298 s.; H. Grundmann, Die Papstprophetien des Mittelalters, in Archiv für Kulturgeschichte, XIX (1929), pp. 109, 114-123; T. Sala, Diz. storico-biografico di scrittori, letterati ed artisti dell'Ordine di Vallombrosa, I, Firenze 1929, pp. 131-138; S. Ekwall, Quando morì il beato G. dalle C., in Rivista di storia della Chiesa in Italia, V (1951), pp. 371-374; I. Hijmans-Tromp, Vita e opere di Agnolo Torini, Leiden 1957, pp. 18 s., 35, 39, 225 e n., 226 e n.; G. Petrocchi, Il problema ascetico di G. dalle C., in Id., Ascesi e mistica trecentesca, Firenze 1957, pp. 201-231; E. Lucchesi, Le due lettere di s. Caterina al beato G. dalle C. di Vallombrosa, Siena s.d. [1958?]; G. Petrocchi, Cultura e poesia del Trecento. La letteratura religiosa, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), a cura di E. Cecchi - N. Sapegno, II, Milano 1965, pp. 669-671; C. Bec, Les marchands écrivains. Affaires et humanisme à Florence (1375-1434), Paris 1967, pp. 117 s., 120 s., 128; M. Petrocchi, Scrittori di pietà nella spiritualità toscana e italiana del Trecento, in Arch. stor. italiano, CXXV (1967), pp. 26 s.; A. Tartaro, Scrittori devoti, in Letteratura italiana. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, II, 2, Bari 1972, pp. 473-476; G. Petrocchi, Letteratura religiosa, in Diz. critico della letteratura italiana (UTET), a cura di V. Branca, III, Torino 1973, p. 173; R.N. 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SOURCE : https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-dalle-celle_(Dizionario-Biografico)